Lifestyle - 20 febbraio 2023, 22:33

"Diafano Opaco", Il primo capitolo del romanzo online di Maurizio Denti Pompiani

A Wally e Cristoforo che si sono innamorati al mare

Ph. Maurizio Denti Pompiani

È uno di quei giorni che non ha voglia di esserlo.

Né chiaro né scuro.

Uggioso e basta.

L'aria salata densa di iodio e veleno intasa i polmoni di quei pochi disgraziati che hanno ancora il coraggio di respirarla.

Vagolavo in una città di mare senza spiagge e con budelli quasi sempre in salita che non portano mai in nessun posto aspettando l’apertura del Municipio. Per ingannare l’attesa, passai lentamente in rassegna una lunga fila di Gioconde dal partito preso affisse su alcuni supporti provvisori di ferro zincato. Le facce photoshoppate ripulite dalle imperfezioni cutanee con denti e pupille sbiancate; il sorriso di plastica; i soliti slogan di spin-doctor di infima categoria che promettevano progresso sociale, ripresa economica, welfare assicurato, il tutto in nome di onestà, trasparenza, libertà e tutte ‘ste parolacce a cui la gente ha smesso di credere da tempo ma che, incredibilmente, sembrano avere ancora qualche effetto sul gregge elettorale di decerebrati che credono ancora che la politica possa in qualche modo influire positivamente sul loro sciagurato futuro predestinato di pecore da suffragio molto plebis e poco scitum.

Riconobbi a stento quella città dall’odore di gerani alle finestre e dalle merde di cane calpestate sui marciapiedi. Ricordi di troppi anni fa, quando mia nonna Ida, precettata dai miei genitori, mi ci portava a trascorrere tutti i tre mesi di vacanze scolastiche estive. Non ci ero più tornato da allora e dovetti constatare che ne erano cambiate di cose ma anche che era logico che fosse così. Che anch’io, in fondo, ero cambiato. Che tutti lo eravamo.

Percorsi, insieme al vento che mi spettinava, un dedalo di carruggi ombrosi e gelidi su qualche salita e alcune discese tutte uguali a sé stesse, fino a quando riconobbi quello principale che, mi pareva di ricordare, mi avrebbe portato in centro esattamente in una piazzola circondata delle case tra vecchi pini marittimi dai rugosi tronchi contorti, dove ero solito consumarmi la pelle delle ginocchia sul porfido della pavimentazione in interminabili partite di calcio con i bambini del posto e non solo, di cui non mi restavano che scialbi ricordi e neanche un nome. Concentrandomi bene, però, potevo sentirne ancora le grida, vederne le ombre scalmanate, udire i richiami preoccupati delle mamme che li reclamavano a casa dove, su tavole imbandite di stoviglie di ceramica bianca e azzurra li accoglievano pietanze ormai inesorabilmente fredde.

Mi sedetti in una di quelle classiche panchine ad aste parallele di legno osservando i muri attorno, i cassonetti, le altre panchine, le saracinesche imbrattate dalle patetiche tags di qualche deficiente che doveva essersi sentito in dovere di firmare qualsiasi cosa, come un celebre stilista anonimo, come se il mondo non avesse il diritto di strafottersene di lui. Notai che gli antichi ciottoli di pietra lucidi e scivolosi del carruggio erano stati recentemente rimpiazzati da una monotona pavimentazione lineare - di laterizi rettangolari in cemento – brutta, pretenziosamente populista e del tutto fuori luogo.

Un invisibile velo madido m’inzuppava i capelli e la muffa dei tumori rigonfi dell'intonaco degli antichi muri saraceni si era ornata di minuscole perle trasparenti come una vecchia ballerina d'avanspettacolo vegetale. C’erano alcune bottiglie di plastica riempite con l'acqua del rubinetto messe fuori dalle porte d’ingresso dei negozi e delle abitazioni, riciclate come spaventa-gatti da qualcuno che crede ancora che i gatti si spaventino per queste cazzate.

I cestini comunali, stracolmi, vomitavano carte unte di focaccia, bicchieri di plastica ed escrementi di cane imprigionati in un sacchetto. Qualche folata di vento mi portava odore di piscio marcio e di pesce fresco e non riuscivo a distinguere un odore dall’altro. Schifato da quel tanfo insopportabile, mi spostai, fermandomi, per un mio strano vezzo, a leggere le epigrafi di persone sconosciute di cui il mondo aveva deciso di liberarsi, cercando di indovinarne il perché, laddove l'età non ne fosse già un motivo più che sufficiente.

Un cane che passava di lì per puro caso, decise di capire tutto di me annusandomi il culo. Concordai su come quello fosse il modo migliore di conoscere la gente. “Un meticcio con il collare che gira libero. Solo i bastardi, a questo mondo, possono permettersi di essere veramente liberi”. Pensai. Mi piacque molto ma non glielo diedi a vedere per non scatenare la sua fradicia riconoscenza quindi mi limitai ad osservarlo e basta. Lui annusò uno spigolo di muro, pisciò spudoratamente su la macchia gialla di zolfo, che avrebbe dovuto dissuaderlo dal farlo, e se ne andò. Senza una direzione precisa. Ne invidiai il libero arbitrio. La naturale pazzia. Perfino la bastardaggine.

Proseguendo il mio cammino arrivai nel punto in cui un carruggio in salita si interseca a quarantacinque gradi con uno in discesa, al cui angolo, sopra un terrazzino di tubolari in ferro e pannelli di truciolare, lo scorbutico gestore di un bar aveva piazzato pochi tavolini di ferro battuto grigio scuro. Mi sedetti e ordinai un caffè. Nella moltitudine di anime sconosciute che con estrema naturalezza mi attraversavano ignorandomi, cominciai a pensare di amare le città di mare fuori stagione e anche le giornate uggiose come quella, grigie e monotone, tristi come la vita di un vecchio coniuge disamorato.

Da quando mi ero messo a vendere pannelli fotovoltaici non aveva praticamente mai smesso di piovere. Sapevo che sarebbe andata a finire così, c’avrei scommesso. Io e la mia sfortuna ci conoscevamo così bene che eravamo diventati intimi ormai. Mi ci ero abituato, le davo del tu. Ultimamente, però, era diventata talmente prevedibile, scontata, che avevo deciso di sfruttarla a mio favore. A causa del mio stato depressivo, economico e mentale, amavo le giornate uggiose, se avessi aperto una gelateria sicuramente sarebbe arrivata una nuova glaciazione, ma non mi è mai piaciuto il freddo, così ho fatto il tecnico fotovoltaico e non ha mai smesso di piovere. La mia sfortuna credendo di fregarmi, questa volta mi stava invece facendo un favore.

L’unica cosa che mi lasciava perplesso era una congiuntura stranamente favorevole che mi rendeva diffidente e mi preoccupava perfino: solo dopo pochi giorni dall’essere stato assunto come tecnico in questa ditta - che già di per sé, dopo anni di disoccupazione e lavori posticci, male o per niente pagati, mi sembrava un’insolita fortuna - mi era stato assegnato un appalto milionario che, se me lo fossi aggiudicato, mi avrebbe fruttato un sacco di soldi.  Nessuno, me per primo, riusciva a spiegarsi come mai il cliente, per il cui impianto mi trovavo in questo posto, avesse chiesto esplicitamente di me, solo me e nessun altro che il sottoscritto. E poi, tutta questa fretta. Neanche il tempo a me di prepararmi a dovere e al mio capo di spiegarmi bene come muovermi, come comportarmi di fronte a situazioni delicate ed importanti come queste.

Naturalmente il mio principale si assicurò di farmi avere tutto il supporto tecnico possibile e la sua personale assistenza h24. Ma perché me, il più vecchio sì ma anche inesperto dei dipendenti? Mistero. Come misterioso era il fatto di come costui fosse venuto in possesso del mio nome e del mio recapito telefonico personale che non appariva nei depliant della ditta né su Internet, né da nessun’altra parte.

Chi mi conosceva ancora così bene, dopo quarant’anni dall’ultima volta in cui misi piede in questa città, da volermi fare un favore del genere e darmi un’opportunità così grande da cambiarmi la vita? La contingenza negativa, chiamatela pure sfiga, una costante che mi perseguitava da oltre un decennio, mi aveva reso scettico e sospettoso verso le persone e le situazioni troppo accomodanti. Le facili occasioni avevano per me la stessa credibilità di una vergine a Patpong e questa opportunità mi era stata servita sul classico vassoio d’argento.

Mi servirono anche il caffè al tavolo, con un bicchiere d’acqua e un piattino con un biscotto di pasta frolla che addentai. Notai sulla mini tovaglietta di carta che lo avvolgeva, una frase: “La bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una sull’altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l’eternità.”. Ho sempre amato gli aforismi di Oscar Wilde.

Il tempo da ingannare era finito con il mio caffè, così mi apprestai a raggiungere il Municipio ma non ricordavo esattamente dove fosse anche perché la sede era stata spostata altrove da quarant’anni. Chiesi al finto Rasta dietro al bancone dove fosse ubicato, senza spiegargli niente di cui tanto non gliene sarebbe fregato nulla. Mr. Indolenza rispose a fatica, senza troppa precisione, che si trovava nel parco. Chiesi anche del bagno ma mi rispose che era guasto. Ringraziai di niente.

Il Parco non è lontano, constatai, posso farcela a piedi in pochi minuti.

Tempo ne ho.

Piove.

E vendo pannelli solari.

(Tutti i diritti sono riservati)

Maurizio Denti Pompiani

maudenpo@gmail.com