La vicenda, è chiaro a tutti, ne siamo certi, è quella che ha sconquassato la comunità religiosa e civile di Inveruno a seguito della decisione di don Marco Zappa di interrompere il proprio ministero. Una scelta maturata in un contesto di profondo discernimento personale, come ha spiegato il Vicario Episcopale monsignor Luca Raimondi, intervenuto direttamente per fare chiarezza e arginare le speculazioni che si sono moltiplicate nelle ultime settimane.
“Don Marco non ha fatto male a nessuno”, ha affermato con fermezza monsignor Raimondi, evidenziando fin da subito l’assoluta correttezza del sacerdote. Nessun reato, nessuna violazione delle norme canoniche: solo una situazione di personale pesantezza legata all’ufficio di parroco, vissuta in silenzio, nel rispetto della propria vocazione e della comunità.
Il Vicario ha sottolineato come la scelta di don Marco sia stata dettata da un bisogno interiore e non da pressioni esterne. Eppure, a margine di questa vicenda, si è fatto strada un altro fenomeno ben più inquietante: la morbosità. Quel chiacchiericcio insinuante e gratuito che, come ha detto lo stesso monsignore, “può essere devastante e serve solo a soddisfare curiosità morbose”.
E se la morbosità attiene alla dimensione della parola, possiamo persino evocare un fenomeno reso iconico dalle sacre scritture: la lapidazione.
La lapidazione, nell’antico contesto giudaico, era una forma di esecuzione capitale prevista dalla legge mosaica per gravi trasgressioni religiose e morali, come la blasfemia, l’idolatria e l’adulterio. Questa pratica rifletteva una concezione collettiva della giustizia, dove l’intera comunità partecipava all’esecuzione, sottolineando la responsabilità condivisa nel mantenere la purezza religiosa e sociale. I testimoni dell’accusa erano tenuti a scagliare per primi le pietre, seguiti dagli altri membri della comunità, in un rituale che mirava a espellere il male dal gruppo. La lapidazione avveniva solitamente fuori dalle mura cittadine, simbolizzando l’espulsione del peccato dalla società. Nel Nuovo Testamento, la lapidazione di Santo Stefano rappresenta il primo martirio di Fede e l’inizio delle persecuzioni contro i cristiani, che spesso sfociavano in esecuzioni pubbliche, utilizzate come deterrente e strumento di controllo sociale.
In un’epoca in cui la superficialità e la ricerca del sensazionalismo sembrano prevalere sul rispetto e sulla verità, le parole di monsignor Raimondi suonano come un monito forte e chiaro:
“Chi è senza peccato salga sull’altare che lo adoriamo”. Parole tardive quelle del religioso accorso a Inveruno mentre una montagna di pietre era stata indirizzata su don Marco, salvo poi transitare dalle pagine dei giornali, che hanno attinto a piene mani dalla capiente bacinella del sensazionalismo più pruriginoso, intingendo nel calamaio virtuale dei pezzi online (ormai predominanti) la penna accusatoria contro talune condotte (certamente riprovevoli, sia chiaro) del clero e dei ministri del culto cristiano.
Naturalmente tutto quanto attiene alla sfera ben più ampia e piena della missione sacerdotale, quella cui don Marco aveva inutilmente (col senno di poi) accennato in un post, è stato polverizzato. Nulla. Il prete alle prese con chat d’incontri vale mille volte di più del prete che da secoli, da millenni, esercita la funzione pastorale. Ci è sovvenuta la forza indiscussa di un bellissimo film, Magdalene (ovviamente premiato nei Festival cinematografici del laicismo intriso di buone intenzioni), pellicola del 2002 diretta da Peter Mulllan dove si narra la vicenda (vera) delle ragazze madri, violentate od orfane che in Irlanda, per anni, furono chiuse in conventi religiosi. Una brutta pagina per la Santa Chiesa d’Irlanda, a cui ovviamente non fece mai da contraltare (specie per chi c’è stato plurime volte, come lo scrivente) la straordinarietà, la forza e la misericordia verso l’essere umano che quella stessa Santa Chiesa aveva esercitato per secoli in quella stessa terra. Qualcosa di molto più grande del certamente disdicevole racconto di Magdalene, ma che un’efficace propaganda anti cristiana, di fatto, annichilisce.
E pertanto a poco o nulla vale la frase richiamata in apertura e di monsignor Raimondi, che richiama alla responsabilità personale e collettiva di non cedere al giudizio facile, di non trasformare le fragilità altrui in spettacolo, e soprattutto di riconoscere che anche chi guida una comunità ha il diritto di vivere momenti di difficoltà.
La vicenda di don Marco Zappa, dunque, non è lo scandalo che qualcuno vorrebbe raccontare. È, piuttosto, il ritratto umano di un sacerdote che ha scelto il silenzio e il ritiro temporaneo per rispetto del proprio ruolo e dei fedeli. E dovrebbe restare tale, senza morbosità, senza processi mediatici, senza voyeurismi spirituali. Una vicenda nella quale il credente- qual è sempre il misero scrivente, che ben sa quanto la Fede sia un Dono e attenga alla sfera più intima dell’uomo, pertanto nel massimo rispetto di chi NON crede- vede, tutt’altro che di striscio o fugacemente, tracce di una presenza maligna nella società di oggi. Il sempre grande Fabrizio De Andrè, per quanto cantore sublime dei Vangeli apocrifi in un indimenticato album, contestò duramente le parole di un Papa sulla presenza, oggi e tra noi, del Diavolo. Ma per chi ha fede in Gesù Cristo, che sempre De Andrè ribattezzò il più grande rivoluzionario della storia, la presenza diabolica è semplicemente una realtà.
Ma quello che ci importa, ovviamente, è la ‘risultanza’ sociale, e mediatica, di un fatto che è deflagrato, espandendosi senza alcun controllo. La pietra dello scandalo è diventata strumento di lapidazione: immediato, senz’appello, irrevocabile, travolgente.
Ma senza la consapevolezza che il vero scandalo, oggi, non è la scelta di un prete di fermarsi per un tempo. Il vero scandalo è il bisogno, quasi compulsivo, di trovare colpe dove non ci sono. Di accreditare i si dice, le voci, le voci da bar in una incrollabile verità. E quanto ci sia di vero, o di artefatto, non importa a nessuno. La pietra è già stata scagliata. La lapidazione è avvenuta. E non c’è neppure quel parroco “che non disprezza/ Fra un miserere e un’estrema unzione/Il bene effimero della bellezza”, e “La vuole accanto in processione/ E con la Vergine in prima fila/ E bocca di rosa poco lontano/ Si porta a spasso per il paese/ L’amore sacro e l’amor profano”.
Fabrizio Provera da TicinoNotizie.it